Jared Polin FroKnowsPhoto.com

Quanti sono i modi per veicolare informazioni e messaggi? Sicuramente innumerevoli e ciò non può che essere ottimo dal punto di vista della pluralità delle informazioni. Ma quando ciò si trasforma in manipolazione e si sposa con la cronaca e la politica, l’allerta rischia di superare i livelli di guardia e dilagare nella fake news e nel dissing.

In Italia e all’estero, negli ultimi mesi, si sono avvicendati numerosi eventi culturali e artistici connessi alla denuncia, ambo le parti, degli orrori perpetrati in Palestina e che hanno avuto, a partire dal 7 ottobre 2023, un’esplosione clamorosa in termini di popolarità e viralità dell’informazione.

Torino sceglie di dare voce anche al punto di vista israeliano che, con la mostra fotografica “Cento per cento inferno”, presso la sede Camis De Fonseca propone ai visitatori la tragedia del 7 ottobre per mezzo della curatela di Ermanno Tedeschi e degli scatti di Ziv Koren.

La narrazione, cruda e priva di intermediari, ci trascina dinanzi alle impietose immagini delle abitazioni, depredate dai propri abitanti, del kibbutz Be’eri. Sedie vuote, pasti mai consumati, panni stesi e giocattoli abbandonati ci scrutano dalle lastre immobili e ci suggeriscono, per sottrazione, la portata dell’evento che ha oscurato o addirittura annullato vite innocenti che mai avrebbero dovuto pagare per decisioni, più o meno opinabili, prese del proprio governo. Duecentotrenta storie che non possiamo narrare ma che possono avere una sorta di riscatto, anche grazie alle installazioni video presenti per volere dell’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Israele a Roma e del Comitato regionale per i Diritti Umani e Civili.

Maya Katzir, parlando a nome degli interessi culturali dell’Ambasciata, nonché curatrice dello screening della mostra, ha dichiarato che l’arte ha la funzione, in questo come in altri casi, di diffondere speranza. Sottolinea come, opponendosi a chi vorrebbe ridurre al silenzio le istanze culturali di Israele, la voce del popolo ebreo è più forte che mai e vuole essere ascoltata.

 Non viene meno un punto fondamentale, ai fini della reale comprensione non soltanto del concept dell’esposizione ma nell’avere coordinate di riferimento, per leggere il conflitto che si sta svolgendo: la presentazione di video e testimonianze della vita di confine che, da decenni, viene vissuta non necessariamente come le fonti d’informazione occidentale ci riportano, grazie al video “95 per cento paradiso, 5 per cento inferno” curato da Orit Ishay, Shimon Pinto, Tamar Nissi e Tzion Abraham Hazan.

La vita di confine ma anche quella di comunità sono due argomenti che, a torto, sono stati poco approfonditi negli ultimi mesi, preferendo l’infuocata tifoseria da stadio alla pacata indagine della realtà quotidiana di luoghi lontani dall’Europa, non solamente da un punto di vista geografico.

Israele è un paese ricco d’immigrazione che ha accolto, nei decenni, varie ondate di ebrei di origine europea, araba, in fuga da regimi repressivi e da rigurgiti antisemiti. Ma non solo, i palestinesi, di altra confessione ed etnia, convivono in terra d’Israele fin dal suo atto di fondazione e occupano posizioni lavorative e dirigenziali a tutti i livelli. Ciò è facilmente comprovabile con semplici ricerche statistiche. Non si parla di opinioni, si descrivono fatti i quali non vengono comunicati al fine di alleggerire carichi e responsabilità ma, unicamente, riportati per amore della verità.

Mostrare ciò che si vede, senza filtri, senza diaframmi di natura politica e sociologica è quello che viene proposto a Torino ricordando, ai più attenti, modalità espressive che hanno lo spessore di un secolo o poco meno. L’informazione, infatti, dovrebbe essere sempre scevra da manipolazioni e punti di vista ma, purtroppo l’arte, come il giornalismo, spesso superano questa regola aurea.

Nel primo caso, si potrebbe concedere il beneficio della licenza poetica, propria del mezzo, ma il secondo strumento di comunicazione dovrebbe perpetuare in eterno la regola morale del diffondere la realtà universale e mai quella personale o ancor peggio quella più comoda o remunerativa.

Parlando di quotidiano, di vita di confine, di vita nonostante tutto a Mantova, presso la Casa del Mantegna, è stata proposta una mostra coraggiosa, di questi tempi: “Disegna ciò che vedi. Helga Weissova da Terezin i disegni di una bambina” grazie all’interessamento del gruppo Pro Forma Memoria di Carpi.

La giovane Helga sopravvisse all’esperienza della vita nel ghetto e la deportazione ad Auschwitz, Freiburg e Mauthausen e lì ha raccontati non già con la macchina fotografica o lo smartphone, bensì con la propria prodigiosa capacità nel disegno e nello storytelling. Il padre, consapevole del talento della figlia, la spinse a “disegnare ciò che vedeva”.

Da questo stralcio di frase, singhiozzata forse da un genitore impotente di fronte al proprio destino, si avvia una riflessione: dobbiamo mostrare ciò che vediamo o dobbiamo mediare con il nostro pensiero o basandosi su ciò che l’opinione pubblica desidera sentirsi dire?

Helga si sarà sentita apostrofare come “complottista” quando mostrò le sue tavole appena dopo la guerra o ebbe immediatamente credito? Lo spessore di quasi un secolo rispetto alla sua esperienze, e a numerose altre del tutto simili, dovrebbe fornirci gli strumenti per attivare e coltivare, sempre, il nostro spirito critico, evitando di appaltarlo ai mezzi d’informazione e all’opinione dominante.

Esprimere, rappresentare, dare voce, non censurare il libero pensiero o no?

Una voce non ha tardato a levarsi dal mondo dell’arte dopo gli eventi bellici generati dall’attentato del 7 ottobre: “No al padiglione del genocidio”. Lo slogan è stato promosso da 7000 esponenti del mondo della cultura che si oppongono, con vigore, alla possibilità di esposizione degli artisti israeliani alla Biennale di Venezia nel 2024. 

Israele ha rischiato di subire la medesima, insensata, procedura di cancellazione culturale toccata agli artisti russi un paio d’anni fa.

La replica del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è esemplificativa di posizioni moderate e libertarie: “È inaccettabile, oltre che vergognoso, il diktat di chi ritiene di essere il dispositivo della verità e con arroganza ed odio pensa di minacciare la libertà di pensiero e di espressione creativa in una nazione democratica e libera come l’Italia”

 Cosa direbbe di noi il padre di Helga, dobbiamo ancora disegnare ciò che vediamo o solamente ciò che ci viene detto? Ogni espressione del pensiero umano, anche in materia di geopolitica, deve essere salvaguardata esattamente come si fa con la vita e le sue forme in quanto ne è, indubbiamente, una testimonianza.

Seguendo la linea di ragionamento di Andrea Concas è bene ricordare come il conflitto israelo-palestinese abbia messo in moto varie temperie artistiche non solo oggi, anche se la percezione grazie ai mezzi di comunicazione di massa ci farebbe pensare al contrario.

L’attivismo artistico ha avuto un grande risveglio e si è mostrato con i mezzi espressivi tipici della nostra epoca, si pensi al criptico Banksy che nel 2021 ha realizzato i propri murales in Cisgiordania, ai performer del calibro di Khaled Jarrar che ha, simbolicamente, lanciato un pallone da calcio oltre al muro, fino ad arrivare all’arte digitale che nella persona di Mohmmed Sabaaneh ha testimoniato la vita nella striscia di Gaza.

La questione che opporrebbe, il condizionale è d’obbligo, la realtà degli eventi e il loro decadere a rango di notizia è difficile, forse impossibile, da disinnescare. L’auspicio è quello di una società capace di coltivare il proprio, personale, spirito critico capace di far germogliare opinioni discordanti e distanti tra loro ma sempre degne di ascolto e rispetto per il grande merito di essere suffragate da fatti esperiti o ricercati di persona e mai accolti come testo rivelato da un, sempre maggiore, profeta del “sentito dire”.